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giovedì 25 aprile 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 aprile.
Alle sette di sera del 25 aprile 1969, a uffici ormai chiusi, un'esplosione scuote le vie attorno alla Fiera Campionaria di Milano: un ordigno, fatto brillare nello stand della Fiat, provoca una ventina di feriti ma per fortuna nessun morto.
Le indagini, affidate al giovane vice dirigente dell'Ufficio politico Luigi Calabresi, si dirigono verso il mondo anarchico anche se l'episodio in sé non sembra destare più di tanto allarme. Le paure del Paese in quel periodo sono rivolte verso l'Alto Adige, dove terroristi sudtirolesi martellano il territorio con attentati a tralicci e caserme dei carabinieri. Invece sarà l'inizio di una delle stagioni più buie per l'Italia, gli «anni di piombo», punteggiati da agguati e attentati con centinaia di morti e migliaia di feriti. Con Milano spesso epicentro del dramma a partire dalla strage di piazza Fontana del 12 dicembre dello stesso anno.
Non era la prima volta del resto che la Fiera entrava nel mirino degli attentatori, e sempre nel mese di aprile. Alle 9.45 di giovedì 12 infatti un bomba «accolse» re Vittorio Emanuele III che, appena arrivato in stazione, si stava recando a inaugurare la Campionaria del 1928. Il bilancio fu terribile, sedici persone morte sul colpo, altre quattro nei giorni successivi. Benito Mussolini da Roma telegrafò alle autorità di polizia: «Trovate subito i responsabili». Nei giorni successivi verranno arrestati centinaia di sospetti senza mai arrivare a individuare i colpevoli: anche quella prima strage, non avrà mai colpevoli.
Un salto di 40 anni ci porta ora alla fine degli anni Sessanta, con il Paese scosso da un ondata di contestazioni operaie e studentesche. Fabbriche e università vengono occupate a ritmo quasi quotidiano, scioperi e manifestazioni si susseguono e spesso terminano in duri scontri con le forze dell'ordine. Proprio all'inizio del 1969 si registrano i primi morti. Il 27 febbraio la visita del presidente degli Usa Richard Nixon scatena violenti incidenti che portarono alla morte di uno studente di 24 anni. Il 9 aprile altri disordini a Battipaglia durante uno sciopero, la polizia apre il fuoco uccidendo due persone e ferendone 200.
Pochi giorni ancora e il 25 aprile un gran botto scuote lo stand Fiat all'interno della Fiera, provocando 19 feriti. Luigi Calabresi, non ancora trentenne, venne incaricato di scovare i colpevoli. Lui indirizza subito le sue attenzioni verso i circoli anarchici, nonostante la data del 25 aprile lasci pensare ad altre ipotesi, e viene subito accusato di svolgere indagini a senso unico. Arrivato da poco in città, era stato infatti aggregato all'Ufficio politico, come allora si chiamava la Digos, incaricato in particolare di seguire gli ambienti estremisti di sinistra.
L'indagine di Calabresi porta all'arresto di quindici persone della sinistra extraparlamentare, rimaste in carcere per sette mesi prima di venire scarcerate per mancanza di indizi. I veri colpevoli saranno individuati, e condannati, qualche anno dopo: i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura che poi entreranno nelle indagini per la strage di piazza Fontana.
Ma siamo ancora ben lontano dal precipitare degli eventi dei mesi successivi. Tra l'8 e il 9 agosto otto bombe scoppiano su altrettanti treni, altre due vengono trovate inesplose. Anche in questo caso solo feriti ma nessun morto e per questo sembra che gli attentatori puntino non alla strage ma a spaventare il Paese. Ben diversa invece è la situazione in Alto Adige, dove gli attentati dinamitardi hanno già causato una ventina di morti. Ma con l'arrivo dell'autunno caldo la situazione precipita bruscamente. Il 27 ottobre a Pisa durante violenti scontri tra manifestanti di sinistra muore Cesare Pardini, studente di Legge di 22 anni. Il 19 ottobre i manifestanti dell'Unione Comunisti Italiani e dal Movimento Studentesco colpiscono a morte l'agente Antonio Annaruma, anche lui 22enne.
Infine arriviamo al 12 dicembre. A Roma scoppiano bombe alla Banca nazionale del lavoro, all'Altare della Patria e in piazza Venezia, provocando 18 feriti. Un ordigno viene trovato a Milano all'interno della Banca commerciale di piazza della Scala e fatta brillare dagli artificieri. Ma soprattutto alle 16.37 c'è quel tremendo boato che scuote piazza Fontana e uccide 17 persone. È l'inizio di una stagione buia che si concluderà solo agli inizi degli anni Ottanta dopo aver provocato quasi 400 morti e oltre duemila feriti. Il bilancio di una guerra, quella che l'Italia aveva dichiarato a se stessa.

mercoledì 24 aprile 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 aprile.
Il 24 aprile 1479 a.C. sale al trono il faraone Thutmosis III, ma la reggenza sarà a lungo detenuta dalla regina Hatshepsut.
Per oltre vent’anni, sull’Egitto regnerà una donna: Hatshepsut. Non è la prima donna faraone; era già accaduto una prima volta durante l’Antico Regno e una seconda durante il Medio Regno. Ma le due precedenti donne faraone avevano regnato in periodi di crisi, che erano seguiti a epoche splendide. Hatshepsut, invece, è a capo di un Egitto ricco e potente.
Intelligente, abile, dotata di capacità amministrative probabilmente eccezionali e di uno spiccato senso politico, Hatshepsut era una delle due figlie di un grande monarca, Thutmosi I (1506- 1494). Fu lui a formare la figlia all’esercizio del potere. Hatshepsut gli testimoniò del resto un profondo affetto, tenendolo sempre come modello. Thutmosi I, che mantenne fermamente la Nubia sotto il giogo egizio, condusse un’importante spedizione militare in Asia.
Accompagnato da un ufficiale famoso per la lunghissima carriera, Ahmes figlio di Abana, il re si avventurò nel territorio del Naharina, a est dell’Eufrate, dove erano insediati gli abitanti del Mitanni. Dopo averli sconfitti, egli commemorò questa grande impresa facendo erigere una stele di confine sulle sponde dell’Eufrate.
Thutmosi III, il grande conquistatore, la ritroverà intatta una cinquantina d’anni dopo, quando arriverà in quel luogo con il suo esercito. Sulla via del ritorno, il re si rilassa e organizza una caccia all’elefante in Siria. A corte, conferisce l’ultima decorazione militare ad Ahmes figlio di Abana, che aveva ricevuto per ben sette volte l’oro dei valorosi: la prima volta che era stato decorato, gli hyksos occupavano ancora l’Egitto! L’anziano soldato, ammirato da tutti, non ripartirà più per la guerra, deciso a godersi il meritato riposo.
A Thutmosi I si deve anche l’apertura di un grande cantiere a Karnak. Il maestro d’arte Meni diresse i lavori in questa località, dove avrebbero gareggiato in genialità tutti i migliori architetti del Nuovo Regno. Hatshepsut ereditò il carattere energico del padre. Sposò il figlio che questi ebbe da una concubina, Thutmosi II, il cui regno fu piuttosto breve (1493-1490). Durante il suo primo anno di governo, scoppia una rivolta in Nubia. Il faraone si infuria quando gli viene comunicato che alcuni predoni hanno rubato del bestiame e che certe tribù hanno osato attaccare diverse fortezze. La sua collera è terribile. Egli risale il Nilo con l’esercito e stermina i ribelli. Solo uno di loro viene risparmiato: il figlio di un capo che, portato prigioniero a Tebe, acclama i soldati vincitori. Ma non appena il Sud si calma, scoppiano disordini in Siro-Palestina: Thutmosi II interviene prontamente. Il giovane re, la cui carriera sembrava promettere bene, muore prematuramente. La sua morte mette l’Egitto in una situazione difficile. Thutmosi II lascia due figlie e un figlio, il futuro Thutmosi III. Ma questi è ancora un bambino, non in grado di assolvere al gravoso compito cui è destinato. Prende quindi la reggenza Hatshepsut: «figlia del re, sorella del re, sposa di dio, grande sposa reale», ella governerà il paese secondo la volontà del nipote, come afferma lei stessa. Ma questo esercizio del potere in modo larvato non si confà alla mentalità egizia.
Hatshepsut si decide quindi a essere re. E si sottolinea la parola «re» e non «regina», in quanto Hatshepsut assumerà caratteristiche maschili che faranno di lei un faraone come gli altri. La mutazione avviene per tappe. All’inizio, pur essendo rappresentata con attributi femminili, ella si afferma come faraone. Poi adotta il costume maschile, il protocollo dei re, sopprime la desinenza femminile nei suoi nomi e nei suoi titoli e porta la barba posticcia e la doppia corona. Due anni dopo la morte di Thutmosis II, Hatshepsut agisce già in qualità di capo dello Stato. Essa si preoccupa di legittimare il proprio potere, spiegando che suo padre, l’amato Thutmosi I, l’ha scelta come regina. I testi affermano che Hatshepsut, figlia del dio Amon, che si faceva garante della sua presa di potere, diresse gli affari dello Stato secondo i propri piani. Il paese si inchinò davanti a lei. Ella era il cavo che alava il Basso Egitto, il palo al quale si ormeggiava l’Alto Egitto, il timone del Delta. Tali immagini, prese dal gergo marinaresco, ricordano l’espressione «la nave dello Stato», di cui Hatshepsut orientò effettivamente la rotta. Grazie ai suoi eccellenti ordini, le Due Terre vissero in pace.
Hatshepsut era una donna molto attraente. Uno dei suoi ritratti più belli è costituito da una sfinge dalla testa umana esposta al Metropolitan Museum of Art di New York. I tratti del viso sono delicati e volitivi al tempo stesso. La mummia di Hatshepsut, che ne ha conservato i lunghi capelli, è una delle più commoventi. Nonostante la maschera della morte, si intuisce una forte personalità, un’energia potente unita al fascino di una femminilità radiosa. Grazie all’opera dei suoi predecessori, Hatshepsut vive un’epoca di pace. Ne approfitta quindi per dedicarsi alla gestione economica del paese e soprattutto a un’intensa attività architettonica. Seduta sul trono, nel suo palazzo, la regina faraone pensa al suo creatore Amon. Il suo cuore le comanda di erigere due obelischi in onore del dio; e la sua mente si mette subito in moto, immaginando già lo stupore degli uomini quando vedranno quei monumenti. Hatshepsut è cosciente della propria impresa, che renderà eterno il suo nome. La regina fece effettivamente erigere quattro obelischi a Karnak, dove intraprese diverse costruzioni, fra cui una sala per la barca sacra interamente circondata da cappelle. Se della sua attività nel Nord del paese si sa ancora poco, è invece certo che costruì a Buhen, in Nubia, un tempio dedicato a Horo, un edificio caratterizzato dalle colonne scanalate, simili a quelle di stile dorico e la cui pianta verrà adottata per i templi greci un millennio dopo. Ma il capolavoro della regina, il tempio che permette di «leggere» il suo regno attraverso i rilievi, è Deir el Bahari, costruito nella regione tebana in una località consacrata alla dea Hathor.
Quando si visita per la prima volta l’Egitto, una delle emozioni più forti è offerta proprio dalla visione di questo tempio, dall’architettura aerea e al tempo stesso radicata nell’eternità, la cui forza celeste è sottolineata dalla verticale della parete rocciosa alla quale è addossato. Il nome di questo edificio era «meraviglia delle meraviglie». «La sua contemplazione» affermavano infatti gli egizi «supera qualsiasi altra cosa al mondo.» Nel Medio Regno qui sorgeva già un tempio, ma la regina, che affidò la direzione dei lavori al suo architetto Senmut, concepì un progetto molto originale. Deir el Bahari presenta infatti una soluzione architettonica che è unica in tutta l’arte egizia: una strada che sale dolcemente verso il tempio, costituito da terrazze sovrapposte. Hatshepsut ebbe l’immensa felicità di vedere terminato il suo tempio funerario. Thutmosi III, una volta salito al trono, fece sparire alcuni dei cartigli della regina faraone senza però distruggere l’edificio che ne onorava la memoria. Ramses II, come fece ovunque in Egitto, lasciò il segno della propria presenza anche qui, facendovi incidere il proprio nome insieme a testi che vantano le sue imprese. Sembra che il tempio sia stato più o meno abbandonato alla fine della XX dinastia, in un’epoca in cui l’Egitto si stava indebolendo. L’ara sacra serviva da cimitero per i sacerdoti e le sacerdotesse di Amon, e vennero messe al sicuro lì anche alcune mummie reali. Con il tempo la sabbia e la polvere ricoprirono gran parte del monumento; poi, in età tolemaica, le autorità religiose si occuparono di nuovo di Deir el Bahari. Il culto di Hatshepsut non vi era più celebrato da molto tempo, ma si allestirono alcune cappelle in cui i pellegrini veneravano due saggi divinizzati Imhotep, l’architetto di Gioser, e Amenhotep figlio di Hapu, l’architetto di Amenofi III. Monaci e anacoreti scelsero Deir el Bahari, «il convento del Nord», come luogo di meditazione. Nel V secolo d.C., sulle rovine del tempio egizio venne costruito un monastero, che era stato definitivamente abbandonato intorno al II secolo. Nell’VIII secolo, il luogo venne completamente disertato, per poi essere riportato alla luce grazie agli scavi del XIX secolo. Oggi abbiamo la fortuna di apprezzare la «meraviglia delle meraviglie» in uno stato non molto diverso da quello originario. Ma le opere di sbancamento e di restauro richiederanno ancora almeno una cinquantina d’anni di lavoro.
Sarebbe necessario un libro intero per parlare del tempio, descriverne l’architettura, percorrerne le sale, tradurne i testi, esporne le scene nei minimi particolari. Questo mondo di pietra, in cui è riservato un posto d’onore alla dea della gioia e dell’amore, Hathor, è un inno immortale alla bellezza. La regina vi onorò suo padre, Thutmosi I, il grande dio Amon-Ra, ma anche il dio solare Ra-Harakhte e la divinità dei morti Anubi. Nei locali delle fondamenta, agli angoli dell’edificio e sotto la soglia, sono stati scoperti alcuni simboli religiosi come, per esempio, degli scarabei, diversi utensili quali magli e forbici, strumenti vari per il rito dell’apertura della bocca e alcune giare con l’iscrizione: «La figlia di Ra, Hatshepsut, ha fatto costruire questo monumento per suo padre Amon, quando è stata tesa la corda per il tempio di Amon, la meraviglia delle meraviglie». Per accedere al tempio si doveva percorrere un viale di sfingi raffiguranti Hatshepsut, che così accoglieva di persona i pellegrini. Di fronte all’edificio si trovava un magnifico giardino, con viali di sicomori e filari di tamarindi, palme, alberi da frutto e arbusti da incenso. C’erano anche una vigna e vasche di papiro, dove si svolgevano riti di caccia e di navigazione. Due persee segnavano l’ingresso del tempio. Nel cortile inferiore, il portico consacrato alle scene di caccia mostra il faraone nell’aspetto di fiera con la testa umana mentre schiaccia i nemici in numero di nove, cioè la totalità dei paesi stranieri. Durante la celebrazione del rito dei quattro vitelli, il signore dell’Egitto viene assimilato al bovaro che dona la vita. Il faraone Hatshepsut procede quindi alla raccolta dei papiri in onore della dea Hathor, e caccia gli uccelli acquatici con una rete e i giavellotti. Il portico degli obelischi evoca il taglio, il trasporto e l’erezione dei giganteschi monoliti di granito rosa destinati al tempio di Karnak; per questi lavori viene utilizzata una chiatta di legno di sicomoro, lunga oltre sessanta metri. Quando il convoglio arriva a Tebe, il cielo è in festa. Amon promette a sua figlia Hatshepsut un regno felice. Sacerdoti, nobili, funzionari e soldati formano un corteo. Si celebrano sacrifici, in particolare lo smembramento dei buoi, quindi si procede alla dedica degli obelischi ad Amon. Hatshepsut compie diversi riti durante la donazione del terreno dove essi verranno eretti, in particolare sull’ara sacra, adottando la stessa posizione in cui si era fatto ritrarre Gioser.
Lasciamo il cortile inferiore e prendiamo la rampa di accesso alla terrazza intermedia. A nord, si trova la cappella del dio dalla testa di sciacallo, Anubi, che conduce la regina verso il fondo del santuario: Hatshepsut è così sicura di non perdersi nel regno dei morti. A sud, sorge la cappella di Hathor, dama dell’Occidente che accoglieva i defunti nella necropoli: a lei si offrivano fiori, frutti ed ex voto quali perle e scarabei. Il santuario è preceduto da una sala ipostila le cui colonne sono coronate da capitelli raffiguranti una testa di donna dalle orecchie di vacca. Hathor, ritenuta la madre della regina faraone, viene rappresentata ora sotto forma di vacca che lecca le dita di Hatshepsut seduta sotto un baldacchino, ora come una donna splendida. La dea accoglie la figlia che ha costruito una casa per lei e imbandito gli altari di cibi. La sala più sacra, stretta e profonda, è scavata nella parete rocciosa. La vacca sacra vi allatta Hatshepsut, infondendo così nella regina l’elisir dell’immortalità. Il dipinto sullo fondo presenta una triade, composta da Amon, che offre il segno della vita ad Hatshesput, la quale viene in tal modo divinizzata, e da Hathor, che si tiene ferma la corona, mentre un disco alato plana al di sopra della scena.
Su questa terrazza intermedia, il portico della nascita venne concepito per spiegare l’origine divina di Hatshepsut e legittimarne il potere. Con l’aiuto dei sacerdoti tebani, ella creò il mito teogonico, secondo il quale suo padre sarebbe il dio Amon in persona. Amon, onorato dagli Amenemhet della XII dinastia, il cui nome significa “Amon è manifesto”, è il dio di Tebe, la città in cui nacque il movimento di liberazione dell’Egitto che avrebbe condotto alla cacciata degli hyksos. Pertanto, glorificando Amon, si ringraziava Tebe. L’origine del dio è oscura. Il suo nome significa “colui che è nascosto”. Piuttosto presto, egli assumerà caratteristiche solari, avvicinandosi così a Ra, sino a diventare onnipotente nel Nuovo Regno sotto forma di Amon-Ra, il re degli dei. Le scene del portico della nascita ci fanno assistere a un consiglio degli dei presieduto da Amon-Ra, che ha deciso di unirsi alla regina Ahmes-Nefertari, la più bella delle donne. Con il consenso del collegio divino, Amon assume le sembianze del faraone ed entra nella stanza della sua sposa, che trova addormentata. Ma la regina si sveglia al dolce profumo emanato dal corpo del marito: gli sorride e l’amore pervade i loro esseri che si uniscono. Resa gravida dal dio, la regina ha la gioia di dare alla luce una bambina che sarà investita del potere supremo. Gli dei intervengono per favorire la nascita: Khnum modella la neonata e il suo ka sul tornio da vasaio, affinché abbia vita, forza, salute, cibo in abbondanza, uno spirito equo, l’amore, ogni gioia e una lunga esistenza. La dea rana Heket anima le figurine forgiate da Khnum. Thot annuncia la futura nascita alla felice madre, che viene condotta nella camera del parto. Hatshepsut nasce in presenza di Amon e di nove divinità. Viene quindi presentata al suo divino padre, che saluta la carne della sua carne e la culla. Seguono quindi le scene dell’allattamento e della presentazione di Hatshepsut alla dea Seshat, che ne traccia i cartigli. «Sua Maestà cresceva meglio di qualunque altro essere» dice un testo. «Il suo aspetto era quello di una dea, il suo fulgore era divino. Sua Maestà divenne una bella fanciulla, fiorente come la primavera.»
Hatshepsut, dopo essere stata presentata agli dei del Nord e del Sud, viaggia per tutto l’Egitto. Si fa riconoscere come faraone dalle divinità locali e dai loro sacerdoti, compiendo una sorta di pellegrinaggio politico-religioso. Ed ecco giunto il momento di procedere all’incoronazione nella capitale. Hatshepsut viene condotta al cospetto di suo padre, Thutmosi I, seduto sul trono. Egli presenta la figlia, il cui nome significa «la prima fra i nobili», come suo successore. Sarà lei, ormai, a dare gli ordini. E tutti dovranno ascoltare la sua parola, unendosi sotto il suo comando. Gli dei la proteggono con la magia. I grandi dignitari d’Egitto ascoltano il discorso del re e ne gioiscono. Sono convinti che Hatshepsut saprà ascoltare la voce degli egizi come aveva fatto suo padre. Nella scena finale, la regina riceve le corone dell’Alto e del Basso Egitto. Facciamo notare che alcuni cartigli di Hatshepsut sono stati danneggiati e che la rappresentazione del rito di incoronazione è molto rovinata. Si è voluto vedere in ciò un atto di vendetta di Thutmosi III; ma, se si accetta questa interpretazione, come si spiega il fatto che egli non abbia toccato altri cartigli e non abbia distrutto l’insieme delle rappresentazioni?
L’avventura di Hatshepsut sarebbe stata impossibile senza l’appoggio dei sacerdoti di Amon che, paradossalmente, avevano designato come re Thutmosi III. Ella trovò un fedele alleato nella persona del gran sacerdote Hapuseneb, la cui influenza politica era considerevole. Fu lui a favorire la creazione del mito della nascita divina e a giustificare teologicarnente la legittimità di Hatshepsut. Nominato capo dei sacerdoti del Sud e del Nord, Hapuseneb dirigeva tutti i culti e, attraverso l’oracolo, di cui aveva il totale controllo, faceva conoscere la volontà di Amon. Hatshepsutt gli affiderà anche la carica di visir, ponendolo in tal modo a capo dello Stato. Sempre sulla stessa terrazza intermedia del tempio di Deir el Bahari, il portico di Punt narra gli episodi di una spedizione commerciale che venne considerata da Hatshepsut come uno dei grandi momenti del suo pacifico regno durante il quale la politica interventistica dei faraoni della XVIII dinastia conobbe un momento di tregua. Eppure la regina dà un’immagine di sé piuttosto sorprendente: sovrana della luce, è stata lei a mettere fine al caos del Secondo periodo intermedio. Ella si vanta di avere restaurato i monumenti danneggiati al tempo in cui gli asiatici occupavano Avari e i predoni taglieggiavano le province del Nord, agendo nell’ignoranza del dio Ra. Ancora una volta, Hatshepsut insiste sulla sua legittimità. Il caos è cessato perché lei è faraone. La sua politica estera fu certamente troppo debole. In Asia le popolazioni non erano meno turbolente di prima e il non interventismo egizio servì solo a incoraggiare i progetti di rivolta. Quando Thutmosi III prenderà il potere, troverà una situazione piuttosto esplosiva, di cui in parte è responsabile Hatshepsut.
La regina si era dedicata innanzi tutto a intrattenere rapporti commerciali con l’estero. E il viaggio a Punt segna l’apogeo ditale politica. Il paese di Punt, la cui localizzazione esatta è ancora oggetto di controversie (molto probabilmente, doveva trovarsi nei pressi della costa somala, vicino all’Eritrea), fu visitato dagli egizi fin dall’Antico Regno. I due paesi sembra abbiano goduto di una buona intesa. Fu Amon di Tebe a ispirare ad Hatshepsut, la sua protetta, l’idea di una spedizione straordinaria nel paese dell’incenso, di cui i sacerdoti facevano largo uso durante i riti. La flotta egizia è composta da cinque grandi navi, con trenta rematori ciascuna. Quando giungono alla meravigliosa terra di Punt, resa ulteriormente bella dalla leggenda, esse gettano l’ancora in acque ricche di pesci. Un’imbarcazione carica di vettovaglie si dispone a raggiungere la riva. I marinai del faraone scaricano numerosi doni, mentre il capo della spedizione, protetto da una scorta militare, saluta il re e la regina di Punt. Quest’ultima è deforme: soffre di una forte elefantiasi. Vengono distribuite perle, collane e armi. I notabili di Punt si inchinano e rendono omaggio ad Amon-Ra. Gli egizi ammirano l’incantevole flora tropicale. Gli indigeni vivono in mezzo alle palme, in capanne rotonde alle quali si accede tramite scale e indossano gli stessi vestiti che si usavano al tempo di Cheope: in questa regione, infatti, la moda non è cambiata e si portano ancora i capelli intrecciati e le barbe tagliate a punta. Gli affari si concludono in perfetta armonia. Viene piantata una tenda per l’inviato del re e i dignitari egizi. Si intavolano discussioni. Gli egizi torneranno a casa con legno d’ebano, oro, incenso, zanne d’elefante, scimmie, pelli di leopardo e di altre bestie feroci. Essi trattano con particolare riguardo gli alberi dell’incenso, avvolgendone le radici in stuoie. Del carico si occupano esclusivamente i marinai egizi, i quali non permettono che gli abitanti di Punt salgano a bordo. La fine delle trattative commerciali viene festeggiata con un allegro banchetto in cui abbondano pane, carne, frutta, vino e birra. I testi ufficiali non parlano di baratto, ma di un tributo versato da Punt ad Hatshepsut. La spedizione, del resto, non è a scopo esclusivamente profano: vuole essere anche un omaggio ad Hathor, sovrana di Punt. La regina fa infatti erigere sulle sue coste una statua che la raffigura insieme al dio Amon. Durante il viaggio di ritorno, alcune scimmie giocherellone si arrampicano lungo le funi. Esse venivano lasciate in libertà perché erano destinate a diventare gli animali domestici dei nobili. L’arrivo a Tebe è trionfale e ricorda l’accoglienza riservata ai marinai del re Sahura, durante l’Antico Regno. In piedi sulle navi, alle quali sono stati abbassati gli alberi, imbrogliate le vele e sollevati i remi, i marinai acclamano il faraone con le braccia alzate. Facciamo notare che le imbarcazioni erano protette con simboli magici: a prua e a poppa erano infatti rappresentati la «chiave della vita», il segno ankh e l’«occhio di Horo». La regina presiede alla cerimonia d’accoglienza nei giardini del tempio di Deir el Bahari, dove vengono piantati gli alberi dell’incenso. Si misura l’incenso fresco, si pesano l’oro e gli altri metalli. Hatshepsut in persona si fa garante dell’esattezza delle pesate. Durante la bella festa della valle, Amon visitava i templi della necropoli tebana. Arrivando a Deir el Bahari, il dio si rallegra che l’incenso offertogli sia fresco e puro: per questo motivo ha ordinato che si facesse una spedizione a Punt. Il suo cuore prova in ciò un immenso piacere e cielo e terra vengono inondati di incenso.
Dirigiamoci adesso verso la terrazza superiore. Il portico esterno è gravemente danneggiato; lì si trovavano colossi mummiformi con il volto della regina. Un portale di granito rosa immette nel cortile. Questa parte segreta del tempio era consacrata al culto di Amon, di Ra e di Hatshepsut divinizzata. Il santuario principale è situato sullo stesso asse del tempio. L’immagine di Hatshepsut in alcuni casi è stata sostituita con quella di Thutmosi III, ma non dappertutto. In questo luogo due famiglie associano la loro fama alle grazie divine: da una parte Hatshepsut e i suoi genitori, dall’altra Thutmosi III e suo padre.
Purtroppo, anche la cappella funeraria di Hatshepsut è assai rovinata. Vi erano rappresentate la navigazione della barca solare durante le ore del giorno e durante quelle della notte e alcune scene di offerta di animali, stoffe e fiori. Hatshepsut disponeva anche di quanto era necessario alla sua sopravvivenza. In fondo alla cappella, la stele di culto era l’elemento sacro per eccellenza, che permetteva allo spirito della regina di vivere in eterno. In un’altra cappella della terrazza superiore, dedicata al culto di Thutmosi I, ci aspetta una straordinaria sorpresa. Su una delle pareti un uomo si è fatto rappresentare in ginocchio, in atto d’adorazione. Viene precisto il suo nome: Senmut. Senmut è il geniale architetto che ha progettato il tempio di Deir el Bahari. Lui, che non era di stirpe regale ha avuto l’audacia — o il permesso — di tramandare in tal modo il ricordo di sé. Senmut è rappresentato anche in un altro punto dell’edificio, mentre prega Hathor. Di origini modeste, egli fece una carriera rapida, ricoprendo almeno una ventina di funzioni diverse. Incaricato della gestione di una parte del grande tempio di Karnak, secondo profeta di Amon, fu anche precettore della principessa ereditaria e capo del consiglio privato di Hatshepsut. Alcune statue lo mostrano mentre tiene avvolta nel suo mantello la figlia della regina.
Il nome di Senmut scompare dalle iscrizioni dopo il sedicesimo anno del regno di Hatshepsut. Alcuni studiosi, ritenendo che l’architetto fosse l’amante della regina, ipotizzano che sia poi caduto in disgrazia. Ma la verità è forse un’altra: è probabile che il costruttore di Deir el Bahari fosse morto. Non lontano dal tempio, vicino a una cava, era stata infatti preparata una tomba per Senmut. La sepoltura era situata sotto l’angolo nordorientale della terrazza inferiore del tempio: Senmut desiderava riposare sotto il suo capolavoro e rimanere accanto alla sua sovrana per l’eternità. Ma egli non venne sepolto lì, per ragioni che ci rimangono ignote.
Come finì l’avventura di Hatshepsut, donna eccezionale, la più grande regina d’Egitto? Non lo sappiamo con certezza. Si è spesso scritto che il giovane Thutmosi III, salito al trono dopo la morte della zia, la odiasse e che per questo abbia fatto distruggere il suo nome sui monumenti, per cancellarne il ricordo dalla storia. Tali affermazioni vanno però attenuate. Thutmosi III non diede infatti ordine di radere al suolo il tempio di Deir el Bahari, che era il simbolo più puro del regno di Hatshepsut. Il suo pseudo-odio, inoltre sembra essersi scatenato molto tardi, una quindicina di anni dopo la morte della regina. Se è vero che tali distruzioni e le mutilazioni con valore simbolico di certe statue mirano a ricollegare il regno di Thutmosi III a quello di Thutmosi II, la distruzione del nome o dell’immagine di Hatshepsut è lungi dall’essere sistematica. Thutmosi III, infatti, tiene più a legittimare il proprio potere che a cancellare il ricordo del regno di Hatshepsut.
E certo che Hatshepsut e Thutmosi III possedevano entrambi una personalità molto forte. La storia, nel loro caso, si è perfettamente organizzata per lasciarli esprimere entrambi. Quando Hatshepsut morì, il nuovo faraone non era più un bambino. Spinto dal desiderio di dimostrare il proprio valore e la propria competenza, egli sarebbe diventato il più grande genio militare dell’antico Egitto. La tomba di Hatshepsut è stata ritrovata. Profonda oltre cento metri sotto terra, priva di testi e di decorazioni, è stata la prima tomba a essere scavata nella Valle delle Regine. Essa conteneva i sarcofagi di Hatshepsut e di suo padre Thutmosi I. Ma Hatshepsut, una volta diventata faraone, si era fatta scavare un’altra tomba nella Valle dei Re. Di tale sepoltura si occupò Hapuseneb, gran sacerdote di Amon. L’asse principale di questa «dimora eterna» era orientato in direzione del tempio di Deir el Bahari, collegando così idealmente i monumenti più importanti della regina faraone. Al padre di Hatshepsut si deve un’iniziativa fondamentale: la scelta della Valle dei Re come sede delle dimore eterne dei faraoni. Questa valle, uno uadi selvaggio e desertico a ovest di Tebe, è dominata da una cima, una sorta di grande piramide naturale: e infatti alcuni studiosi si chiedono se non sia stata intagliata apposta dalla mano dell’uomo affinché assomigliasse alle piramidi degli antichi re e servisse da protezione ai faraoni sepolti sotto di lei. L’accesso alla Valle dei Re, disseminata di fortini, non era consentito ai profani. Le tombe venivano scavate da artigiani iniziati e l’ingresso nelle tombe era vietato. Nei periodi di disordini sociali, questo luogo magico catturerà l’attenzione di ladri e predoni, intenzionati a impossessarsi dell’oro dei monarchi. I costruttori delle tombe reali vivevano a Deir el Medina, in un luogo chiamato «il posto della verità», «il posto dell’armonia». Questi uomini, che non furono mai molto numerosi (da trenta a cinquanta circa), dipendevano direttamente dal re in persona e dal visir. La loro presenza è chiaramente attestata per la XIX e la XX dinastia, ma la comunità che formavano fu certamente operativa fin dalla XVIII dinastia. Questa confraternita costituiva un collegio iniziatico la cui regola di vita presenta affinità con quella di altre comunità di costruttori. Regno felice, anni di pace e di serenità, bellezza di una civiltà incarnata dal tempio di Deir el Bahari: il bilancio dell’opera compiuta da Hatshepsut è più che positivo. Ma già, in lontananza, rimbomba l’eco delle armi. L’ora di Thutmosi III è arrivata.

martedì 23 aprile 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 aprile.
Tra il 23 e il 24 aprile 1915 ha inizio il genocidio armeno.
Durante la prima guerra mondiale (1914-1918) si compie, nell’area dell’ex impero ottomano, in Turchia, il genocidio del popolo armeno (1915 – 1923), il primo del XX secolo. Il governo dei Giovani Turchi, preso il potere nel 1908, attua l’eliminazione dell’etnia armena, presente nell’area anatolica fin dal 7° secolo a.C.
Dalla memoria del popolo armeno, ma anche nella stima degli storici, perirono i due terzi degli armeni dell’Impero Ottomano, circa 1.500.000 di persone. Molti furono i bambini islamizzati e le donne inviate negli harem. La deportazione e lo sterminio del 1915 vennero preceduti dai pogrom del 1894-96 voluti dal Sultano Abdul Hamid II e da quelli del 1909 attuati dal governo dei Giovani Turchi.
Le responsabilità dell’ideazione e dell’attuazione del progetto genocidario vanno individuate all’interno del partito dei Giovani Turchi, “Ittihad ve Terraki” (Unione e Progresso). L’ala più intransigente del Comitato Centrale del Partito pianificò il genocidio, realizzato attraverso una struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), diretta da due medici, Nazim e Chakir. L’O.S. dipendeva dal Ministero della Guerra e attuò il genocidio con la supervisione del Ministero dell’Interno e la collaborazione del Ministero della Giustizia. I politici responsabili dell’esecuzione del genocidio furono: Talaat, Enver, Djemal. Mustafa Kemal, detto Ataturk, ha completato e avallato l’opera dei Giovani Turchi, sia con nuovi massacri, sia con la negazione delle responsabilità dei crimini commessi.
Il genocidio degli armeni può essere considerato il prototipo dei genocidi del XX secolo. L’obiettivo era di risolvere alla radice la questione degli armeni, popolazione cristiana che guardava all’occidente.
Il movente principale è da ricercarsi all’interno dell’ideologia panturchista, che ispira l’azione di governo dei Giovani Turchi, determinati a riformare lo Stato su una base nazionalista, e quindi sull’omogeneità etnica e religiosa. La popolazione armena, di religione cristiana, che aveva assorbito gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale, con le sue richieste di autonomia poteva costituire un ostacolo ed opporsi al progetto governativo.
L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. Non secondaria fu la rapina dei beni e delle terre degli armeni. Il governo e la maggior parte degli storici turchi ancora oggi rifiutano di ammettere che nel 1915 è stato commesso un genocidio ai danni del popolo armeno.
Il 24 aprile del 1915 tutti i notabili armeni di Costantinopoli vennero arrestati, deportati e massacrati. A partire dal gennaio del 1915 i turchi intrapresero un’opera di sistematica deportazione della popolazione armena verso il deserto di Der-Es-Zor.
Il decreto provvisorio di deportazione è del maggio 1915, seguito dal decreto di confisca dei beni, decreti mai ratificati dal parlamento. Dapprima i maschi adulti furono chiamati a prestare servizio militare e poi passati per le armi; poi ci fu la fase dei massacri e delle violenze indiscriminate sulla popolazione civile; infine i superstiti furono costretti ad una terribile marcia verso il deserto, nel corso della quale gli armeni furono depredati di tutti i loro averi e moltissimi persero la vita. Quelli che giunsero al deserto non ebbero alcuna possibilità di sopravvivere, molti furono gettati in caverne e bruciati vivi, altri annegati nel fiume Eufrate e nel Mar Nero.
I paesi che riconoscono ufficialmente il genocidio armeno sono 22, tra cui l’Italia, mentre in altri è riconosciuto solo da singoli enti o amministrazioni. Molti altri paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, continuano a non usare il termine genocidio per timore di una crisi nei rapporti con la Turchia. Barack Obama si era espresso in favore del riconoscimento prima di diventare presidente degli Stati Uniti, ma quando è stato eletto, pur promuovendo la pacificazione tra Turchia e Armenia, ha evitato di usare il termine.

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